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Il fallimento è contemplato

L’etichetta del fallimento viene affissa su tutte le missioni spaziali che non raggiungono il loro obiettivo finale, come nel recente caso Chandrayaan-2. La storia dell’esplorazione è costellata di missioni definite in questo modo, ma le etichette per loro natura sono qualcosa che fa dimenticare la complessità delle cause e delle conseguenze di una missione e ciò che si ottiene in tutte le sue fasi.

Le missioni spaziali fallite non si contano sulle dita di una mano, e neanche su quelle di due né di tre. Servirebbero un buon numero di mani per contare quante missioni spaziali siano bollate come fallite, ma ancor prima bisognerebbe cercare di dare una definizione di cosa si intenda per fallimento. Quella di “fallita” è un’etichetta facile per i titoli sui quotidiani, attira l’occhio e le discussioni da bar sui costi delle missioni, ma le cose come sempre sono molto più complesse di quanto sembrino di fronte ad un cappuccino.

Di recente abbiamo tutti sentito parlare della Chandrayaan-2, la missione indiana che si proponeva di portare la quarta bandiera sul suolo lunare dopo le Luna sovietiche, le Apollo americane e le made in China Chang’e. Il lander indiano Vikram ha sì toccato il suolo lunare, più o meno nel punto previsto del Polo Sud, ma nel farlo ha -almeno per ora- perso i contatti con la madrepatria. Se andiamo indietro nel tempo scopriamo che non è assolutamente la prima volta che capita qualcosa del genere. Delle 123 sonde lunari lanciate dall’inizio dell’era spaziale ad oggi, 54 sono fallite almeno in parte dei loro obiettivi, e lo stesso è accaduto a 24 delle 47 sonde marziane ed a 21 delle 48 dirette verso Venere. Beninteso, se guardiamo al totale delle missioni spaziali, la maggior parte sono state un successo completo, ma il numero di fallimenti parziali o totali è comunque alto.

Questo è avvenuto perché andare nello spazio era, ed è ancora, tremendamente difficile: qualunque cosa vogliamo far uscire dalla Terra deve riuscire a sfuggire alla sua gravità, e per farlo usare un grande quantitativo di energia esplosiva concentrata nei pochi minuti del lancio. Per far sì che la sonda arrivi nel punto previsto del pianeta previsto al momento giusto bisogna tenere insieme moltissime equazioni di dinamica orbitale ed essere in grado di prevedere e modificare con esattezza il moto della sonda: pena mancare il bersaglio, come è successo ad esempio al lander MINERVA della giapponese Hayabusa nel lontano 2005. Anche se tutti i calcoli sono stati fatti alla perfezione, resta poi la delicata operazione di inserire la sonda in orbita attorno al pianeta oppure, anche peggio, di farla atterrare sul pianeta desiderato senza farla andare in frantumi. Sono tutte operazioni delicatissime in cui un piccolo errore o un piccolo malfunzionamento può bastare a determinare il fallimento. I problemi possono nascondersi in ogni cavillo: in un caso, quello del Mars Climate Orbiter del 1999, non si riuscì ad inserire il satellite in orbita attorno al Pianeta Rosso perché l’elettronica di bordo forniva un parametro in unità di misura anglosassoni mentre il controllo della missione pensava di star usando il Sistema Internazionale.

E quindi vale la pena prendersi carico di tutti questi rischi? Tutti probabilmente ricordiamo il lander Philae, che nel 2014 la sonda Rosetta ha lanciato sulla cometa 67P/Churyumov- Gerasimenko. Il 12 novembre di quell’anno Philae fu il primo manufatto a toccare il suolo di una cometa (qualcuno direbbe “accometare”). Era programmato che ottenesse dati per tre mesi riguardo la composizione e le proprietà fisiche del nucleo della Churyumov. Durante l’atterraggio avrebbe dovuto sfruttare un piccolo razzo e degli arpioni, ma niente di tutto ciò funzionò, toccò il suolo ad una velocità di 3,6 km/h e rimbalzò per ben tre volte prima di stabilizzarsi. Finì parzialmente in ombra, dove i pannelli solari non avrebbero potuto svolgere il loro lavoro. La batteria sarebbe durata un solo giorno, si programmarono in fretta e furia tutte le operazioni possibili e vennero accumulati dati su dati fino a poco dopo la mezzanotte del 14 novembre, quando si persero i contatti. Mesi dopo, a luglio 2015, quando il Sole tornò ad illuminare a sufficienza i suoi pannelli, Philae riuscì ad inviare un altro pacchetto di dati a Terra, e poi tornò nel silenzio. Questa storia racconta un fallimento? Per la prima volta un oggetto prodotto dall’uomo ha toccato il suolo di una cometa, uno dei corpi forse dinamicamente più complessi da studiare nel Sistema Solare. Da Philae abbiamo ottenuto il 3% della scienza che avremmo dovuto ottenere se tutto avesse funzionato a dovere. Eppure, il cartellino failed accanto al nome di Rosetta e del suo lander stonerebbe non poco.

Una rappresentazione della sonda Rosetta e del lander Philae nei dintorni della cometa 67/P. Credits: ESA

Rosetta venne lanciata nel 2004 e durò fino al 2016, per un totale di dodici anni e sei mesi, e la fase di preparazione della missione durò quasi altrettanto: l’ESA la approvò nel 1993, ben 11 anni prima del suo lancio effettivo. Una singola missione spaziale ha dato quindi lavoro a centinaia di persone per oltre venti anni. Oltre ai ricercatori ci hanno lavorato i tecnici di volo, gli ingegneri, i produttori delle componenti, è stata al centro di tesi di laurea e di dottorato, di studi e ricerche preparatorie in vista dell’accometaggio, di contenuti didattici e divulgativi che i comunicatori hanno prodotto per intrattenere scolari ed appassionati. Si sono dovuti sviluppare software, tecniche di calcolo e modelli, soluzioni tecnologiche e fisiche, brevetti innovativi e nuove idee riutilizzate anche nelle missioni successive. Inoltre, l’analisi di cosa sia andato storto e cosa no è sempre una miniera di informazioni per evitare di ripetere gli stessi errori in futuro. Tutto questo resta anche se il lander non è riuscito a svolgere il suo compito scientifico al 100%. Altrimenti è come dire che se non si arriva in cima alla montagna non si è fatto alcun trekking.

Costruiamo sonde spaziali per esplorare lo spazio, ma quando non riusciamo a farle funzionare a dovere impariamo tantissimo lungo la strada, ed anche dall’incidente o dall’errore che porta al fallimento. “Sbagliando s’impara” non è mai tanto vero quanto nell’esplorazione spaziale.

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