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Aurora Boreale: che cos’è e come si forma nel Sistema Solare

Difficile immaginare uno spettacolo più grande dell’aurora boreale: mille giochi di luce che inondano i freddi cieli del nord innevato. La storia di quella luce inizia però da ben più lontano, all’interno della nostra stella, e non riguarda solo il pianeta Terra.

Nel 1859 ci fu una grande tempesta solare, così intensa che i venti solari riuscirono a penetrare il campo magnetico terrestre arrivando a creare malfunzionamenti nelle linee telegrafiche in tutto il mondo. Se un evento di questo tipo, il cosiddetto evento di Carrington, ci colpisse oggi, si stima che una buona metà dei satelliti in orbita attorno alla Terra subirebbe pesanti danni. In quell’occasione furono osservate aurore boreali fino alle latitudini di Roma.

Le macchie solari disegnate da Richard Carrington da cui si è originata la tempesta del 1859

L’evento di Carrington ci ricorda qualcosa di importante: lo stretto legame tra il campo magnetico terrestre e quello della nostra stella. Proprio da quel legame nascono le aurore boreali. Anche se a dirla tutta nonostante vengano chiamate le luci del nord, le aurore non avvengono solo nell’emisfero boreale, e non avvengono solo sul Pianeta Terra. Le aurore possono avvenire su qualunque pianeta sia dotato di un campo magnetico planetario, perché nascono proprio dall’interazione tra le particelle espulse dal Sole e i campi magnetici dei pianeti.

La storia dell’aurora boreale inizia nel Sole

Il Sole è una stella, un agglomerato di plasma a elevatissima temperatura e pressione in cui le reazioni nucleari contrastano, con la loro energia, il collasso gravitazionale. Il plasma è, in soldoni, un gas costituito unicamente da particelle cariche, in cui la dinamica è pertanto governata dai fenomeni elettromagnetici. Di quando in quando dal Sole si distaccato dei flussi di plasma, i cosiddetti venti solari, costituiti perlopiù da protoni, elettroni e particelle alfa (nuclei di elio prodotti dalle reazioni nucleari) che vengono lanciati a centinaia di chilometri al secondo nello spazio interplanetario.

L’attività solare aumenta e diminuisce in cicli di 11 anni. Quando l’attività è maggiore, c’è più possibilità di assistere a fenomeni intensi di espulsione di venti solari. Credits: Nasa

Questi venti sono potenzialmente molto dannosi per gli organismi viventi. Sono loro per esempio a rendere molto difficile pensare alla costruzione di una base umana permanente su Marte o sulla Luna: come tutte le particelle cariche e molto energetiche aumentano infatti la probabilità di danneggiare le cellule degli organismi viventi. D’altro canto, sono proprio i venti solari a rendere possibile l’aurora boreale, grazie all’interazione con il nostro campo magnetico planetario.

Il campo magnetico planetario che porta l’aurora boreale

Il movimento di particelle cariche nei fluidi conduttori all’interno di un pianeta caldo (ma in raffreddamento) come la Terra permette di creare un campo magnetico planetario, un campo di forze che interagisce con le particelle cariche che vi si trovino all’interno, similmente a quello che avviene quando una corrente elettrica scorre all’interno di un filo. Questo campo di forze è proprio quello che ci salva dagli effetti nefasti dei venti solari, perché ci protegge come uno scudo dalla radiazione, deviandola rispetto alla sua traiettoria originaria.

Il campo magnetico planetario si può schematizzare con le cosiddette linee di campo, delle linee immaginarie che rappresentano la direzione della forza che le particelle cariche subiscono quando si trovano all’interno del campo. Le linee del campo magnetico collegano il polo nord e il polo sud andando a costituire una sorta di ciambella attorno al pianeta.

Anche i venti solari, proprio perché sono costituiti da particelle cariche, portano con sé dei campi magnetici. Questi modificano la struttura delle fasce di Van Allen e del campo magnetico terrestre. Per questa ragione, nella parte diurna della Terra, quella che punta in direzione del Sole e che viene colpita direttamente dai venti, il campo magnetico è schiacciato, in quella notturna è invece allungato come una coda di una cometa, la cosiddetta coda magnetica.

Venti solari abbastanza intensi possono dare luogo al fenomeno di riconnessione magnetica, un processo attraverso il quale le linee di campo magnetico della Terra e quelle del vento solare si uniscono, spingendo le particelle all’interno del campo magnetico planetario. Quando le particelle cariche del vento solare finiscono all’interno del campo magnetico, sono costrette a spiraleggiare attorno alle sue linee, venendo rimbalzate tra il polo nord e quello sud nelle cosiddette fasce di Van Allen.

solar wind
Una rappresentazione schematica di come i venti solari interagiscano con il campo magnetico terrestre, deformandolo

La magia dell’aurora boreale

Le linee di campo magnetico intersecano l’atmosfera terrestre a elevate latitudini e può succedere che un vento solare più intenso o energetico del solito riesca pertanto a penetrare gli strati più esterni del campo magnetico, raggiungendo l’alta atmosfera terrestre. Questo generalmente avviene tra i 10 e i 20 gradi di latitudine dal polo, qualunque sia l’ora del giorno (ma di giorno è difficile distinguere le luci dell’aurora).

Quando le particelle del vento solare urtano contro le particelle atmosferiche, avviene la magia che porta alla formazione dell’aurora boreale: parte dell’energia cinetica delle particelle del vento solare si trasferisce alle particelle dell’atmosfera che si eccitano (ossia alcuni elettroni passano a uno stato di maggiore energia) oppure si ionizzano (ossia alcuni elettroni vengono strappati dall’atomo a cui appartengono).

L’aurora boreale fotografata dalla Stazione Spaziale Internazionale. Credits: Nasa/Esa

Dopo di ciò, tutto tende a tornare com’era: le particelle eccitate allo stato di energia precedente e le ionizzate a catturare un elettrone libero dell’atmosfera. Nel farlo, gli atomi devono in qualche modo perdere l’energia che avevano ottenuto e lo fanno emettendola sotto forma di fotoni, pacchetti di energia luminosa che danno forma all’aurora boreale.

Il colore dell’aurora boreale

Violetta, rossa o verde, l’aurora boreale ha mille sfumature differenti. Ogni sfumatura, una frequenza di energia luminosa, è associata a una particolare emissione delle particelle atmosferiche. L’ossigeno per esempio, a seconda di quanta energia aveva assorbito, può emettere luce giallo-verde oppure arancio-rossa. Se ionizzato, l’azoto, la molecola più comune della nostra atmosfera, emette luci sul blu (se allo stato atomico) o sul viola (se molecolare). Se non è ionizzato ma solo eccitato, tende invece a emettere radiazione sul rosso.

Il discorso non è sempre così semplice. Un ruolo nella formazione del colore ce l’ha anche l’altitudine: le diverse specie chimiche si possono comportare in maniera diversa a seconda della densità dell’aria, che è più alta più ci si avvicina alla superficie. E non bisogna dimenticare anche che gli urti tra le particelle coinvolgono anche i venti solari, che non sono tutti uguali, a seconda dell’energia delle particelle solari ci può essere una diversa interazione, più o meno energetica, con le particelle atmosferiche.

Non solo boreale: l’aurora australe

Associamo quasi sempre l’aggettivo boreale all’aurora per una mera questione culturale e perché nel nord ci sono più terre abitate dalle quali si possa ammirare, ma l’aurora è ben presente anche all’emisfero sud, dove prende il nome di aurora australe.

L’aurora australe nei cieli antartici. Credits: Esa/Ipev/Eneaa/A. Kumar & E. Bondoux

Nonostante il campo magnetico terrestre sia sostanzialmente simmetrico e nonostante spesso l’aurora australe e quella boreale avvengano contemporaneamente, sembra ci sia qualche differenza tra le luci del nord e quelle del sud. In uno studio del 2019, un gruppo di ricercatori ha ottenuto immagini simultanee di 10 aurore che mostravano caratteristiche asimmetriche in quanto a posizione ed estensione geografica.

Il segreto sembra fosse nella coda magnetica, la forma allungata del campo magnetico nel lato in ombra della Terra. Quando i venti solari arrivano da una direzione inclinata, la pressione che esercitano sul campo magnetico è asimmetrica, e quindi la coda cambia forma, generando aurore asimmetriche nei due poli.

L’aurora sui giganti gassosi

Anche se spesso non le conosciamo bene tanto quelle terrestri, sono state osservate aurore anche su Giove, Saturno, Urano e Nettuno, e qualcosa che assomiglia alle aurore anche su Marte, Venere e sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko.

Le aurore di Giove sono sicuramente tra le più affascinanti. Innanzitutto, al contrario di quelle terrestri che si osservano solo in corrispondenza di forte attività solare, le aurore polari sono permanenti, ci sono sempre anche se non sempre con la stessa intensità e sono visibili soprattutto nell’infrarosso e nell’ultravioletto. L’aurora gioviana non è innescata dal vento solare se non in piccola parte, ma dall’esistenza dei suoi satelliti principali e in particolare di Io, la più interna delle quattro lune medicee. Le forze mareali generate da Giove scaldano moltissimo Io innescando un intenso vulcanismo in grado di produrre, tra le altre cose, particelle cariche. Queste particelle formano una struttura toroidale (ossia, di nuovo, a ciambella), attorno al pianeta, il cosiddetto disco magnetico, che potenzia moltissimo il campo magnetico di Giove. Da questo disco si originano le cariche che formano la principale componente dell’aurora gioviana (l’ovale principale), ma a questa sono sovrapposte altre sorgenti di aurora.

Gli stessi satelliti hanno un loro campo magnetico, legato al campo magnetico del pianeta, e le particelle cariche che essi producono formano, tramite un processo ancora non del tutto chiaro, le cosiddette impronte nelle aurore, visibili come macchie luminose che spiccano rispetto all’ovale principale. Anche in questo caso, l’impronta di Io è molto più intensa delle altre. Talvolta su alcune regioni dell’ovale principale compaiono delle macchie o degli archi particolarmente brillanti ma transitori, che durano poco tempo: grazie ai dati della sonda Juno si è capito che questi archi si formano sul lato notturno del pianeta grazie alle cariche accumulate nella coda magnetica. Queste cariche ancora una volta vengono solo in parte dai venti solari e sono perlopiù legate ai satelliti medicei.

Le aurore di Giove all’ultravioletto immortalate da Hubble Space Telescope. La macchia molto luminosa sulla sinistra è la cosiddetta “impronta” aurorale di Io. L’esatto processo con cui le impronte si formano non è ancora del tutto chiaro. Credits: Nasa/Esa

Nonostante Saturno sia un gigante gassoso come Giove, la storia delle sue aurore somiglia molto di più a quella dell’aurora terrestre. Sul signore degli anelli non c’è un disco magnetico come su Giove e le aurore sono il risultato dell’interazione tra il vento solare e la magnetosfera del pianeta attraverso il fenomeno della riconnessione magnetica.

L’aurora di Saturno nell’infrarosso. Credits: Nasa/Esa/Cassini

Sulle aurore dei giganti ghiacciati, Urano e Nettuno, non si sa invece molto, come del resto non si sa molto di questi pianeti a causa dell’assenza di missioni a essi dedicate. La Voyager-2, nel suo passaggio vicino ai pianeti del 1986 e del 1989 ha osservato delle deboli emissioni legate alle aurore, quindi si suppone che questo fenomeno sia presente su entrambi i giganti ghiacciati. Ma c’è da dire che la Voyager-2 ha osservato i pianeti in una singola occasione, con una singola condizione di attività solare e in un singolo momento dell’orbita dei pianeti.

Solo su Urano il fenomeno è stato osservato nuovamente grazie a Hubble Space Telescope in alcune occasioni tra il 2011 e il 2014, e appaiono all’ultravioletto come delle macchie nelle regioni polari. Su Nettuno, si pensa che l’interazione con il suo satellite Tritone potrebbe generare un fenomeno simile a quello tra Giove e Io, ma serviranno nuove osservazioni per poter definire qualcosa sulle aurore del gigante ghiacciato.

Le immagini sono quelle della Voyager-2, ma le macchie bianche sono le aurore di Urano osservate all’ultravioletto da Hubble Space Telescope. Credits: Nasa/Esa/Hubble

L’aurora sui pianeti rocciosi

Venere e Marte non hanno campi magnetici planetari (ce l’avevano, ma oggi non più): Marte è troppo freddo e Venere non ruota abbastanza velocemente su sé stesso. Eppure qualcosa di simile ai fenomeni aurorali sembra avvenire anche lì.

Sul lato notturno di Venere talvolta sono stati osservati dei bagliori luminosi, apparentemente inspiegabili in un mondo privo di campo magnetico. La sonda Venus Express ha però dato una possibile risposta al fenomeno. Pur non avendo un campo magnetico, infatti, Venere ha una coda magnetica indotta dall’interazione con il vento solare, un po’ come fa un sasso in un corso d’acqua. Nella coda è stata osservata la riconnessione magnetica, proprio lo stesso fenomeno che porta alla formazione dell’aurora terrestre, che ha portato alla formazione di una bolla di plasma durata per poco più di un minuto sul lato notturno del pianeta.

Il pianeta Venere dalla Mariner 10. Credits: Nasa

Su Marte, anche se non c’è un campo magnetico su scala planetaria, ci sono dei fenomeni aurorali nell’ultravioletto. Furono osservati per la prima volta nel 2005 dalla sonda Mars Express, da poco arrivata in orbita attorno al Pianeta Rosso. Si pensa che siano legate alla presenza di anomalie magnetiche su Marte che, pur non avendo più un campo magnetico planetario, ne mantiene qualche traccia localizzata in alcune rocce della sua crosta.

Più di recente, con i dati della sonda Maven si è scoperto che le aurore su Marte avvengono anche sul lato diurno, dove i venti solari colpiscono le particelle di idrogeno che di continuo fuggono dall’atmosfera di Marte (che un tempo aveva un’atmosfera densa, e oggi la sta perdendo proprio a causa di questi processi di fuga di gas). I protoni del vento solare colpiscono l’idrogeno in fuga da Marte, rubandogli elettroni per formare altri atomi di idrogeno. Questi vanno poi a scontrarsi con il gas atmosferico, producendo un’emissione aurorale nell’ultravioletto detta protonica.

Una schematizzazione della formazione di aurore protoniche su Marte. Credits: Nasa

Anche sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko la sonda Rosetta ha osservato qualcosa che somigliava a un’aurora. L’aurora della cometa è visibile solo all’ultravioletto (e per di più nel lontano ultravioletto, quello più energetico) e si forma a causa dell’interazione tra i venti solari e l’acqua contenuta nella chioma della cometa.

La cometa 67P/Churyumov-Geraismenko in una serie di immagini dalla missione Rosetta. Credits: Esa

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