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Space Habitat: portare la biosfera sugli altri pianeti

Colonizzare lo spazio in maniera permanente significherà costruire, così come negli ecosistemi terrestri, degli habitat spaziali in grado di supportare la vita dell’essere umano nello spazio. L’ecologia di questi mini-ecosistemi dovrà essere in grado di fornire supporto a lungo termine di risorse energetiche e alimentari agli equipaggi e ai colonizzatori. Portare la vita nello spazio significherà creare delle biosfere su altri pianeti simulando le dinamiche e i processi della biosfera terrestre. Dagli esperimenti compiuti negli ultimi anni e da quelli in corso, piante e batteri sembrano adattarsi bene alla vita nello spazio. E senza di loro l’essere umano non può sopravvivere per molto.

Terraforming è un termine usato per descrivere il possibile processo di modifica dell’atmosfera, della temperatura e dei processi chimici sulla superficie di un pianeta al fine di renderlo abitabile dall’essere umano. Questo tipo di ingegneria planetaria è stata descritta per la prima volta in un articolo del 1961 dall’astronomo Carl Sagan (che è stato anche tra i fondatori del progetto SETI) intitolato The Planet Venus, ipotizzando la possibilità di rendere l’atmosfera di Venere adatta alla vita. Capendo le dinamiche dei modelli ecologici e chimici del pianeta Terra è possibile così estendere anche ad altri pianeti i processi chimico-fisici da attuare affinché la vita biologica possa sostenersi autonomamente. Questa è la grande sfida che l’esplorazione spaziale dovrà affrontare una volta che l’essere umano avrà messo piede stabilmente su altri pianeti per riuscire realmente ad abitare un pianeta nello stesso modo di come lo facciamo qui sulla Terra.

Space habitat come la base Concordia

Per adesso NASA ed ESA devono però affrontare una prima sfida di sostenibilità spaziale in termini di risorse per permettere agli equipaggi una volta arrivati su Marte o sulla Luna di sopravvivere aspettando l’arrivo della missione successiva. Si tratterà oltre a produrre energia per il mantenimento dei dispositivi elettronici e delle apparecchiature dei moduli abitativi, di riciclare ossigeno e acqua, e soprattutto di produrre cibo fresco per alimentare l’equipaggio. La prima base lunare o marziana sarà simile alle basi di ricerca scientifica presenti in Antartide (l’Italia è presente insieme alla Francia con la base Concordia) dove per l’intero inverno australe vengono annullati tutti i collegamenti aerei. Per circa sei mesi l’anno le basi antartiche all’interno del continente diventano così un insediamento che deve essere autosufficiente in termini di risorse. Queste basi scientifiche sono state costruite in ambienti estremi sia in termini di temperature che di scarsità di risorse energetiche (l’inverno polare in assenza di luce solare è di circa tre mesi). Sono stati così progettati dei veri e propri ecosistemi chiusi capaci di garantire la sopravvivenza dell’equipaggio per diversi mesi. Queste basi però non sono completamente autosufficienti e devono essere continuamente rifornite di risorse e provviste. Ci sono esperimenti che studiano la possibilità di creare ecosistemi che mantengano un equilibrio su una scala di tempi più lunga, senza nessuna interazione con l’esterno.

La base Concordia, in Antartide. Credits: ESA/IPEV/PNRA–A. Salam

Ecosistemi nello spazio

Il tempo più lungo di permanenza di esseri umani su un altro pianeta è stato di circa 21 ore. Questo è il tempo passato sulla superficie lunare dall’equipaggio dell’Apollo 11 il 20 luglio 1969. Cercare di creare ecosistemi chiusi artificiali sostenibili e permanenti sarà la primaria sfida delle future missioni di insediamento sulla superficie lunare e marziana, data la difficoltà di rifornire di materiali e risorse basi poste a grande distanza dalla Terra.

Quello che è certo è che non c’è modo di lasciare la Terra verso altri pianeti in maniera permanente senza le piante. Nel deserto dell’Arizona venne avviato nel 1991 il primo esperimento di ricostruzione di una biosfera terrestre chiamato Biosphere 2 (gli scienziati che hanno avviato il progetto lo hanno battezzato così in quanto hanno sottinteso che la biosfera terrestre sia la Biosfera 1).

Veduta esterna del centro di ricerca Biosphere 2 in Arizona. Credits: University of Arizona

Il progetto prevedeva di creare una simulazione della biosfera della Terra per permettere ad un gruppo di persone di vivere ed essere autosufficienti senza alcun apporto e interazione con l’esterno. Le diverse missioni avviate all’interno di questa enorme serra volevano studiare i processi biologici e chimici di evoluzione di un ambiente isolato e come la permanenza di esseri umani al suo interno poteva modificare e far evolvere la rete di equilibri biologici. Attualmente il progetto Biosphere 2 è di proprietà dell’Università dell’Arizona e ospita diversi tipi di esperimenti, tra cui il Lunar Greehnouse (LGH), un prototipo di BLSS (Bioregenerative Life Supportive System) che dovrà studiare la fattibilità di creare ecosistemi artificiali simili alla biosfera terrestre in grado di supportare la vita di equipaggi in termini di produzione di risorse e del loro riciclo in missioni spaziali di lunga durata. Biosphere 2 è una vera e propria serra di 1,27 ettari e contiene diversi tipi di habitat ecologici e biomi (foresta tropicale, deserto, zone litorali, ecc) e le persone al suo interno sono in grado di prodursi tutto il cibo che hanno bisogno. Studiare come i biomi antropizzati che servono a produrre cibo si evolvono e interagiscono con gli altri biomi naturali è uno degli obiettivi a lungo termine di Biosphere 2. E cercare di controllare l’equilibrio chimico e biologico attraverso la presenza dell’essere umano è un altro fattore critico di studio e di ricerca. Senza una omeostasi tra i diversi ambienti ogni ecosistema è destinato a degenerare in un bioma non più in grado di ospitare l’essere umano.

Space Farming per gli space habitat

È stato calcolato che un astronauta a bordo della ISS consuma approssimativamente 1,8 kg di cibo e imballaggio ogni giorno. Una missione su Marte di tre anni per un equipaggio di quattro persone ne richiedere circa 11 000 kg. Un grande quantitativo da portare a bordo di una navicella spaziale. Oltre a questo problema c’è il fatto che il cibo liofilizzato e refrigerato subisce una degradazione delle vitamine durante lo stoccaggio. Uno studio ha dimostrato che la quantità di molte vitamine tra cui la vitamine A, C e K, diminuiscono significativamente all’interno dei cibi già nel primo anno di stoccaggio. Inoltre nutrienti e vitamine da cibi freschi sono necessari per mantenere il corretto funzionamento biologico del corpo umano. È così che nasce la necessità di studiare la fattibilità di produrre cibo direttamente nelle stazione spaziali e nei futuri moduli abitativi marziani e lunari.

All’interno del modulo Zvedza della ISS è attivo già dal 2002 un esperimento di crescita di piante in microgravità chiamato Lada. Si tratta di vere e proprie mini serre artificiali in cui le piante vengono fatte crescere in atmosfere controllate e con luci artificiali (LED che emettono a particolari spettri di lunghezze d’onda per permettere il pieno assorbimento della potenza emessa). Questo esperimento ha già fornito molti dati sulla capacità delle piante di crescere in un ambiente spaziale e in quasi assenza di gravità. L’acqua, che contiene i nutrienti e gli elementi necessari alla sopravvivenza e sviluppo delle piante, si distribuisce attraverso un apposito substrato alle radici in modo bilanciato. In microgravità infatti l’acqua tende a formare bolle e non sono possibili quindi le tecniche idroponiche usate sulla superficie terrestre.

Nel 2018 è stato installato un altro esperimento per studiare la crescita delle piante a bordo della ISS: l’Advanced Plant Habitat (APH). Si trova all’interno del modulo sperimentale giapponese Kibo e i primi esperimenti sono stati condotti usando l’Arabidopsis thaliana, appartenente alla famiglia delle Brassicacee (a cui appartengono tutte le specie di cavoli e rape ad uso alimentare). L’Arabidopsis è considerata un modello vegetale per gli esperimenti botanici e di genetica delle piante (come il moscerino della frutta Drosophila lo è per la genetica animale).

L’astronauta Kate Rubins della spedizione 64 a bordo della ISS nel novembre 2020 controlla le piante di radicchio fatte crescere nell’APH. Credits: NASA

Uno studio importante in questo esperimento riguarda lo sviluppo di lignina all’interno delle piante. In assenza di gravità gli esseri umani sperimentano una riduzione del tessuto osseo, e in maniera analoga le piante tendono a sviluppare meno lignina in quanto non devono controbilanciare la gravità per sostenere la loro struttura. Altri fattori di crescita e sviluppo degli organismi vegetali viene modificato, così come l’espressione genetica e la possibilità che le piante hanno di difendersi da malattie e stress biologici.

Obiettivo finale di queste mini-serre orbitanti è cercare di produrre cibo fresco in grado di compensare la carenza di vitamine ed altri nutrienti che gli astronauti non possono assimilare dal cibo liofilizzato e portato a bordo della ISS. Dato che le future missioni verso Marte con equipaggio umano potranno durare anche più di due anni, lo studio di una sana dieta spaziale sarà fondamentale per il benessere degli astronauti.

Space habitat marziani sulla Terra

Conosciuti come Mars Analog Habitats, sono vere e proprie simulazioni di ipotetici insediamenti permanenti su Marte. Hanno lo scopo di raccogliere dati su aree diverse di ricerca, dalla fisiologia umana all’organizzazione degli ambienti di vita dell’equipaggio, dalla psicologia dei singoli individui alle tipologie e dinamiche delle interazioni tra i membri dell’equipaggio, cercando di individuare i diversi tipi di problemi che possono insorgere tra individui che condividono uno spazio ristretto per lungo tempo.

Mars-500 e HI-SEAS sono stati i primi esperimenti di questi tipo in cui si sono studiati gli effetti a lungo termine di isolamento in uno spazio ristretto di un gruppo di persone. Mars-500 è stato il primo tentativo di simulare una spedizione su Marte con un ipotetico equipaggio di 6 persone rinchiuse in isolamento per 520 giorni in un modulo che rappresentasse la navicella spaziale usata per il viaggio. Nell’esperimento è stato simulato anche il ritardo di 20 minuti nelle comunicazioni con il centro di controllo che gli astronauti che intraprenderanno la spedizione su Marte avranno per ricevere e inviare informazioni con il comando missione.

Il progetto HI-SEAS è situato sulle isole Hawaii, a circa 8200 piedi sul monte Mauna Loa. L’esperimento è servito sia per simulare missioni verso Marte sia per le base lunari nelle prossime missioni Artemis. HI-SEAS nel complesso è un insieme di sei missioni compiute dal 2013 fino al 2017 e che sono durate per periodi di tempo che andava dai 4 agli 8 mesi.

I moduli abitativi di HI-SEAS e l’ambiente marziano del vulcano Mauna Loa che simula il terreno che dovranno incontrare gli astronauti una volta sbarcati su Marte. Credits: HI-SEAS

L’equipaggio reclutato per questo tipo di simulazioni è composto da geologi, biologi, ingegneri e altri scienziati selezionati non solo per le loro ricerche scientifiche ma anche per le loro attitudini sociali e al lavoro cooperativo. Andare d’accordo e adottare soluzioni condivise di problem-solving è di fondamentale importanza per il successo di missioni nello spazio. Questo tipo di esperimenti servirà infatti a ESA e NASA a profilare le persone adatte a compiere viaggi spaziali di lunga durata. Non servirà più essere bravi piloti di aerei per diventare astronauti, ma sicuramente servirà dimostrarsi bravi e motivati coinquilini.

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