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Missioni sample-return: perché sono importanti

Da Perseverance al programma Chang’e, dalle Hayabusa fino alle missioni Apollo. Sono ormai moltissime le missioni cosiddette sample-return che hanno avuto o avranno come obiettivo quello di riportare a terra dei campioni di altri corpi planetari. Questo tipo di missione è di importanza cruciale per la nostra comprensione del sistema planetario in cui viviamo.

Di missioni sample-return ne abbiamo fatte fin dall’inizio dell’epoca spaziale. Erano sample-return le missioni Apollo e le Luna sovietiche, robotiche le seconde e manuali le prime. Ma la maggior parte delle missioni di questo tipo si sono concentrate di recente, grazie alle tecnologie e ai sistemi di guida autonoma avanzati sviluppati, ma anche grazie alla crescente consapevolezza dell’importanza dei sample-return. Esempi recenti sono la missione Hayabusa2 della Jaxa, Osiris-Rex della Nasa, Chang’e-5 cinese e, non ultimo anche se solo in parte, il rover Perseverance.

Quando la meteorite non basta ci vuole una sample-return

Nel 1794 il fisico tedesco Ernst Chaldni fu il primo a proporre che alcune rocce ferrose ritrovate negli anni precedenti da Peter Simon Pallas non si fossero originate sulla Terra ma potessero venire dallo spazio. Fu, in un certo senso, il primo a riconoscere l’esistenza delle meteoriti. Da allora abbiamo ritrovato decine di migliaia di questi frammenti di corpi di planetari, asteroidi o pianeti, finiti sulla superficie del nostro pianeta.

Quando si trova una meteorite, viene analizzata e inserita in base alla sua composizione all’interno di un complesso sistema di classi e gruppi. L’assunzione è che meteoriti con composizioni simili potrebbero provenire da uno stesso corpo progenitore o da un gruppo di corpi progenitori simili tra di loro. Per esempio si pensa che le cosiddette HED (howarditi-eucriti-diogeniti) provengano tutte dall’asteroide Vesta.

L’asteroide (4) Vesta dalla sonda Dawn. Credits: Nasa

Tuttavia c’è una bella differenza tra il supporre una comune provenienza, per quanto plausibile essa sia, e l’esserne sicuri perché la roccia è stata prelevata direttamente da una sonda sulla superficie dell’asteroide o del pianeta di turno. Una missione sample-return consente quindi di essere sicuri della provenienza del campione che studiamo. Un vantaggio non da poco nella comprensione dell’evoluzione delle superfici planetarie.

Inoltre, i campioni prelevati da una sample-return non sono contaminati dal contatto con la nostra atmosfera e questo ci consente di studiarli in una forma più pura rispetto alle meteoriti. L’ingresso in atmosfera rappresenta un momento di shock per la meteorite, che a causa dell’elevata temperatura a cui è sottoposta tende a perdere gli elementi più volatili. Inoltre, siccome raramente le meteoriti vengono raccolte appena dopo la loro caduta, sono sottoposte ad anni o secoli di erosione a causa degli agenti atmosferici proprio come le altre rocce terrestri.

D’altra parte, le superfici planetarie di corpi privi di atmosfera sono modificate dal contatto con l’ambiente spaziale e studiarne i campioni ci permette quindi anche di accedere ai numerosi modi con cui questo ambiente è in grado di modificare la struttura e la composizione delle rocce. Il cosiddetto space weathering, l’erosione spaziale, è legato al continuo bombardamento delle superfici planetarie da parte dei raggi cosmici, del vento solare e delle micrometeoriti. Siccome nella maggior parte dei casi studiamo le superfici planetarie da remoto, tramite l’utilizzo di sonde e satelliti, capire come questi processi modifichino le proprietà di una superficie è fondamentale anche per interpretarne in maniera corretta i dati.

Uno schema che illustra i principali modi con cui l’ambiente spaziale modifica le superfici planetarie. Credits: WikiMedia CC

Le sample-return permettono esperimenti più precisi

Ci sono anche altri motivi che rendono desiderabili le missioni di tipo sample-return. Le analisi compiute dalle sonde e dai rover sono preziosissime, perché permettono di analizzare direttamente in loco alcuni campioni di roccia planetaria. Sono per esempio preziose le analisi dei vari rover marziani, come Curiosity e Perseverance, veri e propri laboratori su ruote che analizzano, tramite l’ausilio del loro braccio meccanico, campioni di polvere e roccia del pianeta rosso. Ma c’è un problema di spazio: ogni chilogrammo di sonda si paga a caro prezzo e lo spazio totale che una sonda può occupare non è poi così tanto, per cui nelle sonde la tecnologia deve essere miniaturizzata, leggera, essenziale. C’è anche un problema di potenza, perché anche i generatori di energia elettrica sulle sonde sono in genere vincolati (per esempio alla distanza dal Sole nel caso dei pannelli solari) e in generale il loro budget di energia è limitato e deve essere suddiviso tra i vari strumenti e le varie necessità della sonda.

Come il cratere Jezero, luogo di atterraggio di Perseverance, doveva apparire quando su Marte era presente l’acqua liquida. Senza una missione sample-return, anche qualora Perseverance trovasse tracce fossili non sarebbe possibile confermarle. Credits: Nasa/Jpl

Sulla terra i laboratori di analisi invece non hanno questi limiti, gli strumenti possono occupare intere stanze, avere energia a volontà ed essere in generale più sofisticati e complessi di quanto siano quelli sulle sonde. Analizzare i campioni in questi laboratori ci consente di ottenere più risposte e con una precisione maggiore. Esempio principe è la geocronologia: attraverso la misura degli isotopi radioattivi contenuti in una roccia, nei laboratori adibiti è possibile risalire alla sua età, un aspetto che ha fondamentali implicazioni nel ricostruire la storia del sistema solare, l’età degli eventi da impatto o di vulcanismo, e molto altro tra cui, chissà, forse anche l’insorgenza della vita.

Le sample-return permettono esperimenti più duraturi e riproducibili

La tecnologia fa sempre passi da gigante, anche in campo di strumentazione scientifica. Analizzare dei campioni su una superficie planetaria permette di farlo una sola volta, con la strumentazione dell’epoca in cui la sonda viene lanciata. Avere dei campioni a portata di mano permette invece di prenderli e analizzarli ogni volta che lo desideriamo, con la strumentazione più avanzata che in ogni epoca è a disposizione. In questo senso le sample-return sono degli investimenti sul futuro: analizziamo le rocce lunari da decenni con tecniche diverse e più avanzate, con domande sempre nuove e strumentazione sempre nuova, e continueremo a farlo probabilmente anche in futuro.

Un campione di roccia lunare preparato per essere analizzato tramite tomografia a sonda atomica in una ricerca del 2020. Crediti: Jennika Greer, Field Museum

Inoltre, grazie alle sample-return si rende possibile, almeno in linea di principio, riprodurre gli esperimenti un gran numero di volte. Se Perseverance analizza un campione di roccia nel cratere Jezero, quell’analisi resterà molto probabilmente un unicum nella storia. Se, come si spera per il futuro, quel campione verrà riportato a terra, potrà essere analizzato più e più volte da laboratori e ricercatori indipendenti l’uno dall’altro, con buona pace del metodo scientifico galileiano.

La prima sample-return: cosa abbiamo imparato dalle rocce lunari

Gli astronauti delle missioni Apollo hanno riportato a Terra oltre 382 chilogrammi di campioni lunari, le Luna sovietiche qualche ulteriore centinaio di grammi. Quasi mezzo secolo dopo, nel 2020, la Chang’e-5 ha raccolto altri 1,7 chilogrammi di campioni dalla superficie del nostro satellite.

Il punto di atterraggio della Chang’e-5 nella Louville Omega hill dal Lunar Reconnaissance Orbiter della Nasa

Le rocce lunari ci hanno insegnato moltissimo sul nostro satellite e sulla sua evoluzione, ma anche più in generale sui processi che avvengono nel sistema planetario in cui viviamo. Per esempio è proprio con i campioni lunari che abbiamo imparato a conoscere i processi di space weathering.

I campioni lunari sono fondamentali anche per le datazioni delle superfici in tutto il sistema solare. In generale si suppone che più una superficie è costellata da crateri, più è antica, perché ha avuto più tempo per subire impatti planetari. Ma questa è solo una datazione relativa, che ci indica quanto una superficie sia antica rispetto a un’altraDei campioni lunari possiamo studiare l’età nei laboratori geocronologici e in più conosciamo la densità dei crateri della superficie da cui sono stati prelevati: possiamo quindi confrontare la quantità di crateri di quella superficie con quella degli altri corpi planetari procedendo così procedere a una datazione assoluta.

Una delle rocce lunari riportate dalla missione Apollo 15 del 1971. Credits: Nasa

Le rocce lunari sono perlopiù basalti e brecce grigiastre risalenti a 3,2 miliardi di anni fa nei mari o a 4,4 miliardi di anni fa nel caso delle zone più elevate. Ci sono anche alcune regioni ricoperte da flussi di lava decisamente più recenti, attorno a 1,2 miliardi di anni fa. Le zone più elevate sono invece costituite da rocce intrusive, formate all’interno del satellite e poi portate in superficie durante la formazione dei monti. Grazie alle missioni Apollo abbiamo imparato che tutto sommato le rocce lunari non sono così diverse da quelle terrestri: per esempio gli isotopi dell’ossigeno nelle rocce lunari sono presenti in quantità molto simili a quelle terrestri e questo, insieme ad altre analisi hanno portato all’ipotesi dell’origine della Luna da un impatto sulla Terra attorno ai 4 miliardi e mezzo di anni fa.

Quali sono state le principali sample-return

Dopo le missioni lunari, le prime di successo furono due sample-return un po’ particolari: la missione Genesis e la missione Stardust. Genesis ha raccolto campioni di vento solare, quelle particelle cariche che vengono espulse dalla nostra stella, intrappolandole in alcune capsule che contenevano diversi materiali per le diverse componenti del vento solare. Per un pelo non le abbiamo perdute: al suo rientro, nel 2004, il paracadute non si aprì e la capsula si schiantò. Fortunatamente gran parte del materiale sopravvisse all’incidente. Nel 2006 la missione Stardust raccolse campioni dalla chioma della cometa Wild 2 intrappolandoli tramite un dispositivo di cattura a base di aerogel.

La cometa Wild 2 dalla missione Stardust. Credits: Nasa

La Jaxa ha lanciato la missione Hayabusa nel 2003 e, pur tra molti problemi tecnici, è stata la prima missione sample-return asteroidale: nel 2010 ha riportato un po’ di granelli di polvere dalla superficie dell’asteroide Itokawa. Il 5 dicembre scorso è rientrata la sua erede, Hayabusa2, che con grande successo ha riportato campioni dell’asteroide Ryugu. Sempre rimanendo in ambito asteroidale Osiris-Rex, firmata Nasa, ha compiuto la sua manovra di toccata-e-fuga dall’asteroide Bennu lo scorso autunno, prelevando una grande quantità di materiale. Osiris-Rex tornerà a casa con i suoi campioni entro il 2023.

Il futuro delle sample-return: Mmx e Mars Sample Return

Mars Moons Exploration, o Mmx, è una missione della Jaxa in partenza nel 2024. Mmx sarà dedicata, per la prima volta nella storia, esclusivamente allo studio delle due piccole lune marziane, Deimos e Fobos, e già questo è un primato nella storia dell’esplorazione spaziale (se si escludono i due fallimenti delle Phobos-I e Phobos-II sovietiche). Ma c’è di più, perché Mmx preleverà da Fobos dei campioni da riportare a Terra, dove potranno essere analizzati in laboratorio, e sulla stessa Fobos rilascerà un piccolo rover di fattura franco-tedesca.

Una rappresentazione della futura missione Mmx. Credits: Jaxa

Anche Perseverance, che in questi giorni ci sta facendo sognare dal cratere Jezero su Marte, è parte di una più ampia missione di sample-return. Perseverance raccoglierà infatti campioni di roccia lungo il suo tragitto e li lascerà all’interno di capsule sul percorso. Entro questo decennio dovrebbe partire una missione Mars Sample Return, in collaborazione Nasa-Esa, che raccoglierà questi campioni per riportarli a terra.

Una rappresentazione di come la Mars Sample Return potrebbe lanciare le capsule contenenti i campioni di Perseverance verso il modulo di rientro a Terra. Credits: Nasa

Fonti: Asteroids, Planetary Society, Nasa, Jaxa

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