Spazio & Società

Meglio coltivare un orto o “coltivare” pillole?

L’esplorazione e la conquista di nuovi mondi da parte dell’uomo, passa inevitabilmente per innumerevoli e complessi quesiti sul come poter sostenere e soddisfare le esigenze fisiologiche dell’organismo umano e prima fra queste, la necessità di avere un’alimentazione sana e corretta. Sono sempre più affermati gli studi sulla nutrizione umana, che dimostrano come una buona qualità di salute di un individuo sia legata alla sua alimentazione, mediante l’assunzione di nutrienti derivati da alimenti freschi, ricchi di antiossidanti, vitamine, aminoacidi e fattori coenzimatici di origine naturale.

Gli alimenti a disposizione degli astronauti, per la maggior parte sono sterilizzati ad alte temperature e liofilizzati attraverso dei processi che tentano di mantenerne inalterate le qualità nutritive. Purtroppo però, molti elementi naturali presenti nei vegetali o nelle carni, subiscono denaturazione delle molecole anche a basse temperature o per via trattamenti fisici che subiscono, impoverendo l’alimento delle sue sostanze più preziose. Gli astronauti sono costretti infatti ad integrare la loro alimentazione, spesso, mediante l’assunzione di integratori alimentari e fitoterapici specifici a seconda dei casi e delle esigenze, all’interno di un programma alimentare creato ad hoc per ciascun individuo. 

Sulla Terra, per i comuni mortali, l’industria farmaceutica, definisce questi componenti come “nutraceutici” ma livello globale non esiste una una garanzia di qualità ed efficacia, soprattuto perchè questi prodotti non hanno una definizione legislativa stringente in quasi nessun paese del mondo.

Il termine nutraceutico è nato per indicare il collegamento esistente tra “nutrizione” e “agenti farmaceutici” e oggi raccoglie prodotti naturali quali alimenti funzionali, alimenti fortificati e soprattutto gli integratori alimentari (ad esempio prodotti contenenti fibre, aminoacidi, minerali, vitamine ed estratti naturali, prevalentemente di origine vegetale), che costituiscono il gruppo predominante della categoria.  Purtroppo però, tutta questa famiglia di prodotti per l’integrazione della nutrizione umana non è vincolata ad un percorso di autorizzazione e immissione in commercio come per i farmaci tradizionali, per i quali sono richieste più fasi cliniche di sperimentazione e che necessitano di molti anni di studio prima di dimostrarne l’efficacia scientifica ed avere l’autorizzazione all’uso sull’uomo. Infatti, ai fini della vendita, per gli integratori alimentari, nella maggior parte dei paesi occidentali è necessaria solo una notifica al Ministero della Salute, che ne documenti la materia prima di estrazione, le  modalità d’uso raccomandate, gli eventuali rischi derivanti dall’assunzione, l’uso tradizionale (purtroppo spesso legato anche alle medicine orientali tradizionali, di cui non abbiamo studi scientifici di dimostrata efficacia) e   le possibili interazioni con la dieta o con farmaci. Per la quasi totalità di queste molecole, non esiste una normativa, in Europa e negli USA che che determini la necessità di prescrizione medica o di fornire dati di studi scientifici (tipo doppio cieco)in merito alla non dannosità e dimostrata efficacia funzionale delle molecole di sintesi. Tali prodotti, infatti, sia nel nostro continente che in America, dove la popolazione ne fa largo uso indiscriminato, sono a vendita libera e si trovano comunemente anche sui banchi dei supermercati.

Più recentemente, studi scientifici iniziano a porre in discussione la reale efficacia delle molecole di questi nutrienti se non assunti da alimenti freschi, ma di sintesi chimica o di estrazione da prodotto fresco e poi stabilizzato. Pare che molti di questi composti non riescano allo stesso modo, ad assolvere alle funzioni delle molecole naturali, come il caso di alcune vitamine di sintesi largamente consumate dalla popolazione. È possibile dunque avere una corretta nutrizione integrandola con prodotti da banco che sostituiscono gli alimenti freschi?

Si sono posti questa domanda anche nell’ambito dell’esplorazione spaziale, dove da anni, infatti, nella prospettiva di sottoporre gli astronauti ad affrontare lunghi viaggi verso nuovi mondi, come Marte, hanno messo  a punto un programma di ricerca che preveda la coltivazione di alimenti freschi a bordo della stazione spaziale, identificando e testando nuove varietà di piante per la futura crescita in microgravità. La prospettiva è quella di rendere autonome le produzioni alimentari durante i viaggi interplanetari per gli equipaggi che li affronteranno. Una prospettiva ambiziosa e ancora molto lontana dall’essere realizzata, ma i primi passi sono stati mossi con successo.

Gli astronauti nella stazione spaziale internazionale hanno tradizionalmente dovuto fare affidamento su alimenti preconfezionati sterilizzati per soddisfare le esigenze nutritive e garantire la sicurezza alimentare durante i voli spaziali. I primi esperimenti di colture realizzati nello spazio a bordo della Iss e già condotti da quasi un decennio, hanno visto coinvolte diverse varietà di piantine, con risultati soddisfacenti, dimostrando che è possibile coltivare “alimenti” in condizioni di microgravità e radiazioni intense, fornendo un’alternativa fresca e nutriente, oltre a un’opportunità di un gradito cambiamento nella dieta.

Piccoli raccolti vegetali sono stati realizzati sulla stazione spaziale utilizzando il sistema di produzione vegetale, prima con il progetto Veggie e successivamente con l’Advanced Plant Habitat (APH),per un periodo di 33-56 giorni inizialmente e fino a 135 giorni nella sua forma più evoluta.

È stato creato un habitat in grado di riprodurre un ambiente di crescita adeguato. Il progetto sperimentale è dotato di più di 180 sensori calibrati per garantire che il sistema funzioni autonomamente con una  temperatura fra 18-30°C, umidità relativa fra 50-90%, concentrazione di CO2 fra 400-5.000 ppm,  un flusso di ventilazione dell’aria 0,3-1,5 m/s e intensità della luce controllata e qualità spettrale in grado di assolvere alle funzioni di fotosintesi delle piante. Gli esperimenti che inizialmente duravano fra i 30 e 55 gionri, sono giunti a durare fino a 135 giorni.

Una delle camere di crescita realizzate può accogliere le piantine fino ad un’altezza massima di 45 cm, per una superficie di 1.700 cm2 e per una profondità radicale di 5 cm. Numerosi sensori di umidità per la superficie e per le radici, controllano i valori ed erogano a seconda del fabbisogno quotidianamente acqua e nutrienti, mentre durante tutta la fase colturale, per l’astronauta che segue l’esperimento è possibile raccogliere campioni di aria e acqua per monitorare la coltura e l’andamento dell’esperimento. Sono presenti inoltre telecamere a colori con vista superiore e laterale e a infrarossi, in grado di acquisire immagini fisse periodiche e temporizzate per il monitoraggio della crescita delle piante.

La lattuga e le altre piccole colture come Lattuga romana rossa var. “Outredgeous”, Zinnia hybrida var. “Profusione”, cavolo cinese  Tokyo Bekana e una varietà di rapa giapponese Mizuna, così coltivate nello spazio sono risultate molto simili nella composizione a quelle coltivate sulla Terra. Addirittura si è visto che questo tipo di produzione, nonostante sia cresciuta sotto una gravità inferiore e radiazioni più intense che sulla Terra e seppur quantitativamente limitata per oggettive ragioni spazio e di input necessari con i modelli attuali, può offrire anche vantaggi come maggiori quantità di nutrienti presenti nel prodotto come potassio, sodio, fosforo, zinco e fenoli, che hanno proprietà antivirali, antitumorali e antinfiammatorie. Inoltre, la coltivazione di colture fresche nello spazio potrebbe fornire ulteriori nutrienti che sono molto meno abbondanti nelle razioni preconfezionate, come le vitamine K, B1 e C, che tendono a degradarsi durante la conservazione a lungo termine,

Il prodotto, nello specifico una lattuga, è stato consumato in parte dall’equipaggio, che ha mangiato alcune delle foglie mature senza effetti collaterali, mentre il resto è stato congelato e trasportato sulla Terra dove sono state condotte le analisi chimiche e microbiologiche. I campioni analizzati dai ricercatori sulla Terra,  hanno rivelato la presenza di comunità microbiche sulle piante coltivate in microgravità e hanno scoperto che la diversità e l’identità dei microbi era simile a quelli coltivati sulla Terra. Non sono stati trovati batteri pericolosi per la salute umana sulle foglie della lattuga e il loro numero di spore di funghi e muffe era nella norma per il consumo umano.

Questi risultati, seppur da consolidare, proseguono con esperimenti su altre colture e con sistemi in continua evoluzione con l’obiettivo di supportare le esigenze nutritive degli astronauti nello spazio. Tutti i test test hanno confermato che la coltivazione di alimenti freschi ricchi di nutrienti e anche in grado di soddisfare le necessità di “gusto” a bordo della stazione spaziale, è possibile.

Il programma di ricerca compie continui passi avanti, con l’obiettivo finale di realizzare le tecnologie necessarie per una “biosfera”, con capacità produttive sia quantitative che qualitative in grado di coltivare cibo in modo sostenibile per gli equipaggi delle future missioni spaziali di lunga durata.

Esistono ancora forti fattori limitanti alla produzione di alimenti freschi nello spazioc on i quali bisogna fare i conti, come l’impiego di acqua e controlli dei fattori ambientali come temperatura, CO2, sviluppo di patogeni batterici e microrganismi dannosi da contaminazione degli ambienti e disponibilità di spazio che non siano pochi metri quadrati.

In attesa di vedere l’uomo giungere nuovamente sulla Luna per restarci, i test futuri a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, sperimenteranno altri tipi di colture a foglia e piccoli frutti come peperoni e pomodori… da coltivare, magari, nel viaggio verso Marte!

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