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Plutone, come e cosa abbiamo scoperto del pianeta nano

Dal pianeta mancante di Percival Lowell alla scoperta fortuita di Clyde Tombaugh, fino ad arrivare alle scoperte rese possibili dalla sonda Nasa New Horizons, che nel 2015 ha fatto visita al pianeta nano. Ecco come abbiamo scoperto Plutone e cosa abbiamo imparato di questo piccolo corpo planetario ai confini del Sistema Solare.

Nel 1781 venne scoperto Urano. Ma c’era qualcosa che non quadrava: la sua orbita si comportava in modo strano, in modi che erano difficili da spiegare con la struttura del sistema planetario allora nota. L’ipotesi più probabile era che un altro pianeta si trovasse oltre Urano. Due matematici, il britannico James Couch Adams e il francese Frenchman Urbain Le Verrier trattarono il problema in maniera indipendente l’uno dall’altro, calcolando quale orbita dovesse avere questo ulteriore pianeta: Nettuno fu scoperto nel 1846. Ma c’era ancora qualcosa che non tornava.

Le anomalie nell’orbita di Urano erano solo in parte spiegabili con le perturbazioni di Nettuno. Nel 1879, l’astronomo Camille Flammarion notò alcune anomalie anche nelle orbite delle comete Swift-Tuttle e Barnard 2 e l’inglese George Forbes calcolò che dovevano essere dovute addirittura a ben due pianeti oltre l’orbita di Nettuno.

Da Planet X a Plutone

Percival Lowell, il famoso astronomo americano che fondò l’osservatorio di Flagstaff che porta il suo nome, arcinoto nella storia per le sue ricerche sulla vita marziana, chiamò Pianeta X il “pianeta mancante” (dove la lettera X indica la sua natura incognita). Lowell organizzò varie campagne osservative nei primi anni del Novecento per scovarlo: ci si aspettava un pianeta di 7 masse terrestri, una super-terra oltre l’orbita di Nettuno. Ma queste ricerche non ebbero alcun successo.

Percival Lowell nel suo osservatorio a Flagstaff. Credits: Lowell Observatory

Nel 1929 Clyde William Tombaugh, un astronomo amatoriale statunitense, ottenne un posto all’osservatorio di Lowell a 13 anni dalla morte del suo fondatore. Occorreva della manovalanza astronomica: c’era un pianeta da cercare e per farlo bisognava confrontare un grande numero di lastre fotografiche. Tombaugh usava una tecnica chiamata blinking: tramite uno strumento inventato nel 1904 dall’ottico tedesco Carl Pulfrich – il comparatore a intermittenza – era possibile scambiare rapidamente due lastre fotografiche che inquadravano le stesse porzioni di cielo ma erano state ottenute a settimane di distanza l’una dall’altra, cercando a occhio se tra una e l’altra ci fossero piccole differenze. Se ci fosse stato qualche puntino luminoso che si comportava in maniera diversa dalle stelle fisse, avrebbe potuto essere solo un corpo planetario.

Il comparatore a intermittenza usato da Tombaugh per scoprire Plutone, esposto all’osservatorio di Lowell. Credits: Lowell Observatory

Fu così che nel 1930, proprio durante la ricerca di Planet X, Clyde Tombaugh scoprì Plutone. In due lastre fotografiche ottenute nel mese di febbraio, c’era un piccolissimo puntino che si spostava leggermente rispetto allo sfondo del cielo. Tombaugh pensò subito di essere finalmente riuscito nell’impresa di trovare il tanto agognato Pianeta X. Ma studiandolo si capì che Plutone era molto piccolo, troppo piccolo per poter avere, su Urano, l’influenza gravitazionale cercata.

Le due lastre fotografiche in cui Clyde Tombaugh scoprì Plutone, a confronto, con una freccia a indicare il tenuo puntino del pianeta nano. Credits: Lowell Observatory

Si smise di cercare il Pianeta X solo nel 1989, quando grazie ai dati della sonda Voyager 2 si scoprì che la massa di Nettuno era leggermente più piccola di quanto calcolato in precedenza e questo poteva spiegare le presunte anomalie nell’orbita di Urano. Nessuna sonda spaziale ha percepito discrepanze gravitazionali dovute a un pianeta oltre l’orbita di Nettuno. Per quanto poi un’ipotesi sia tornata in auge con la vicenda di Planet Nine, non sembrava esserci alcun Pianeta X.

Il nome di Plutone

La scoperta del nuovo oggetto spopolò rapidamente. Sulla stampa di tutto il mondo comparvero titoli concitati per la scoperta del nuovo pianeta. L’osservatorio Lowell ricevette moltissime proposte per il nome da dare al pianeta, circa un migliaio.  Plutone, il nome del dio romano dell’Oltretomba, fu suggerito da una bambina inglese di 11 anni, Venetia Burney. Il suo suggerimento arrivò a Flagstaff tramite il nonno Falconer Madan, allora librario alla Biblioteca Bodleiana di Oxford.  Plutone era un nome che proveniva dalla mitologia classica, come per gli altri pianeti, e le sue prime due lettere erano proprio le iniziali di Lowell. Una scelta perfetta per l’occasione, che fu votata all’unanimità contro i principali sfidanti Minerva (già dato all’asteroide 93 Minerva) e Cronus, che però aveva la sfortuna di essere stato proposto da un astronomo piuttosto impopolare tra i colleghi, Thomas See.

In alto a sinistra, un trafiletto del New York Times dedicato alla scoperta di Plutone. Credits: New York Times OTD

Arriva Caronte

Plutone ha un satellite, Caronte, scoperto nel 1979 quando il pianetino era vicino al perielio e quindi più facilmente osservabile. Considerando che l’anno plutoniano dura 248 anni terrestri, non è un’evenienza che capiti molto spesso. La scoperta arrivò dall’Osservatorio Navale di Washington, dal quale gli astronomi stavano conducendo una campagna di osservazione di Plutone.

Caronte immortalato dalla sonda New Horizons. Credits: Nasa Jpl

Nelle immagini Plutone appariva deformato: qualcosa che ci si aspetta se c’è un satellite troppo vicino per essere separato otticamente. La scoperta del satellite permise anche, per la prima volta, di misurare con precisione il diametro di Plutone: 2300 chilometri, due terzi della Luna, la metà di Mercurio. Un pianeta veramente minuscolo.

Le immagini dell’Osservatorio Navale di Washington con cui fu possibile la scoperta di Caronte. Credits: U.S. Naval Observatory

La riclassificazione

Fino al 2006 non esisteva una definizione formale di pianeta. Del resto non era mai servita: era chiaro che i pianeti fossero 8, poi era arrivato Plutone ed erano diventati 9 (Cerere era classificato come asteroide). Ma a cavallo tra i due millenni il dibattito si accese: Plutone, una manciata di pixel persino nelle immagini di Hubble Space Telescope, era molto strano per trovarsi nella stessa classe dei pianeti superiori. Oltre a essere minuscolo, aveva un’orbita molto schiacciata e molto inclinata, una superficie ricoperta di ghiacci. Caratteristiche che lo faceva somigliare molto più a una cometa che a un pianeta. Neil deGrasse Tyson, per esempio, allora direttore al New York’s Hayden Planetarium, lo aveva provocatoriamente inserito tra le comete ai confini del Sistema Solare. Eppure, avendo scoperto Caronte, apparve una nuova caratteristica planetaria che si andava ad affiancare alla sua sferoidalità, ossia quella di avere un satellite proprio come la Terra o Marte. Anzi, per la verità Plutone di satelliti ne ha cinque: oltre a Caronte ci sono Nix e Hydra, scoperti nel 2006, Kerberos scoperto nel 2011, e Styx, scoperto nel 2012.

Plutone immortalato da Hubble Space Telescope. Credits: Nasa/Esa

Insomma, per farla breve avvenne che nel 2006 l’Unione Astronomica Internazionale si riunì a Praga per mettere un punto alla questione e scegliere una definizione formale di pianeta. Si decise che un pianeta, per essere definito tale, doveva orbitare attorno al Sole, essere sferoidale e aver ripulito la sua orbita da asteroidi e frammenti di roccia. Plutone, così come Cerere e l’allora appena scoperto Eris, non rispettavano l’ultimo dei criteri, e appartenevano pertanto a un’altra classe di oggetti, a metà strada tra asteroidi e pianeti: i pianeti nani (di questo parleremo in un altro approfondimento).

L’era di New Horizons

Pochi mesi prima della riclassificazione di Plutone e degli altri pianeti nani, partiva la missione New Horizons, una sonda della Nasa che aveva come obiettivo principale proprio Plutone. La strada dalla Terra a Plutone è lunga, ci vollero quasi 9 anni prima di quel luglio 2015 in cui New Horizons lo raggiunse, regalandoci una nuova forma per Plutone nell’immaginario collettivo e un mare di dati per studiare e conoscere meglio questo mondo ai confini del sistema planetario. Proprio come è stato per Cerere con Dawn, raggiunto per altro nel marzo dello stesso anno, la sonda ha rivoluzionato la nostra conoscenza del pianeta nano, che prima era ridotta a pochi pixel anche nei più potenti telescopi del mondo.

Plutone dalla sonda New Horizons. Credits: NASA JPL

Il cuore di Plutone

Una delle prime cose che colpiscono dalle immagini della sonda New Horizons, e che si intravedeva già dalle osservazioni di Hubble, è la grande macchia chiara a forma di cuore. La cosiddetta Tombaugh regio, così viene chiamata, è un’enorme distesa di ghiaccio d’azoto, anidride carbonica e metano. La regione è costituita da due aree: la Sputnik Planitia è il “ventricolo” sinistro del cuore, candido e liscio, mentre il ventricolo destro è molto più irregolare e rugoso. La Sputnik Planitia è estremamente giovane, perché è priva di crateri. Questo, di per sé, è un aspetto molto interessante, perché significa che Plutone è un corpo geologicamente attivo, in cui qualche tipo di processo geologico è in grado di ripristinare attivamente la superficie.

La Sputnik Planitia nelle immagini di New Horizons. Credits: NASA JPL

A una prima occhiata, Sputnik Planitia sembrava un altipiano, ma ulteriori studi hanno mostrato che in realtà è una depressione a circa 3 chilometri di profondità, probabilmente generata in passato da un grande impatto planetario. Trovandosi più in basso, sono diverse anche le condizioni di temperatura e pressione, che rendono possibile l’esistenza del ghiaccio d’azoto. Sputnik Planitia è un ghiacciaio, spesso 4 chilometri e che fluisce attivamente come fanno anche i ghiacciai qui sulla Terra. Ma è diverso dai ghiacciai terrestri: il ghiaccio d’azoto, al contrario di quello d’acqua, è più denso della sua controparte liquida, per cui quando il ghiaccio fonde tende a risalire fino alla superficie, creando una dinamica convettiva. Come se non bastasse, lì in mezzo c’è anche ghiaccio d’acqua, meno denso di quello d’azoto, che quindi può galleggiarvi come iceberg.

Plutone e Caronte in un’immagine composta con i dati della New Horizons. Credits: Nasa

Ma c’è di più, perché sembra che questa grande massa di ghiaccio sia stata in grado letteralmente di ri-orientare l’asse di rotazione di Plutone, portando – a causa delle interazioni mareali con la sua luna – la Sputnik Planitia sull’asse che collega il pianeta nano a Caronte.

Alcune strutture di ghiaccio d’acqua in mezzo alla Sputnik Planitia, indicati come “hill” nell’immagine sono simili concettualmente agli iceberg terrestri. Credits: Nasa

E se ci fosse un oceano su Plutone?

Probabilmente al di sotto di tutto quel ghiaccio si trova anche dell’acqua liquida, un oceano a dirla tutta. Se così fosse, le forze mareali sarebbero più forti e si potrebbe spiegare meglio il ri-orientamento della Sputnik Planitia. Quest’idea sarebbe supportata anche da altre osservazioni, come le fratture tettoniche che si estendono sulla superficie e che potrebbero essere spiegate proprio dal congelamento graduale di un oceano sotterraneo: l’acqua congelando espande, e durante questa espansione potrebbero insorgere – probabilmente ancora oggi – delle faglie. Beninteso, questo oceano sarebbe ben nascosto sotto centinaia di chilometri di ghiaccio. In passato però potrebbe non essere stato così, e potrebbe quindi aver dato luogo ad attività criovulcanica.

Wright Mons è probabilmente un enorme criovulcano, alto fino a 4 chilometri, la più imponente struttura di questo tipo nel sistema solare esterno. Credits: Nasa

Plutone ha un’atmosfera

È molto tenue, ma c’è. Plutone ha una sottile atmosfera di azoto, metano e monossido di carbonio. Parliamo di una quantità di gas infinitesimale se la confrontiamo con quella terrestre, circa 100.000 volte di meno. Ma è anche una quantità che varia nel corso dell’anno plutoniano: nella sua orbita molto ellittica Plutone passa da 30 unità astronomiche al perielio a quasi 50 unità astronomiche all’afelio, causando ampie variazioni di temperatura sulla sua superficie, sulla quale il ghiaccio ciclicamente sublima in gas oppure si deposita.

L’ultima foto scattata da New Horizons prima di lasciare il sistema plutoniano immortala l’atmosfera del pianeta nano, evidente grazie alla luce solare che vi filtra attraverso. Credits: Nasa

I ghiacci e l’atmosfera, per la verità, attraversano un ciclo di sublimazione e condensazione tutti i giorni: una buona parte dell’atmosfera di notte congela sulla superficie e di giorno viene liberata come gas. E questo è particolarmente vero per i ghiacci della Sputnik Planitia che, essendo la più estesa massa ghiacciata di Plutone, in un certo senso controlla la circolazione atmosferica dell’intero pianeta nano, governandone i venti e la dinamica.

Altre fonti generali: Storia dell’Astronomia di Cambridge, Asteroids, Asteroids, NASA Solar System, La Scienza vol2. Il Sistema Solare

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