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Tre Nobel (e mezzo) per i Buchi Neri

In questi ultimi quattro anni i buchi neri sono stati costantemente al centro dell’attenzione mediatica. L’11 Febbraio 2016 la collaborazione LIGO-Virgo ha annunciato la prima rilevazione diretta di onde gravitazionali grazie alla fusione di due buchi neri. Il 10 Aprile 2019 la collaborazione scientifica dell’Event Horizon Telescope (EHT) ha annunciato la prima foto di un buco nero. Ieri, Martedì 6 Ottobre 2020, sono stati assegnati tre premi Nobel per la Fisica per risultati legati ai buchi neri.

I Nobel sono stati assegnati a Sir Roger Penrose, per “la scoperta che la formazione dei buchi neri è una predizione robusta della teoria della relatività generale” e a Reinhard Genzel e Andrea Ghezper la scoperta di un oggetto compatto supermassicci al centro della nostra galassia“.

In questo articolo cerchiamo di chiarire alcuni aspetti di questi premi, in particolare di quello attribuito al famoso ed eclettico scienziato Roger Penrose.

I Teoremi di Singolarità di Hawking-Penrose

Oggi sappiamo con certezza che i buchi neri esistono, ma non è sempre stato così. Prima dell’annuncio di LIGO e Virgo e della famosa foto della collaborazione EHT, la maggior parte dei fisici nella comunità scientifica erano fortemente convinti della loro esistenza, ma per altri c’è sempre stato spazio per dubbi di vario tipo. In effetti, sembrava molto strano che tali oggetti potessero esistere davvero in Natura: i buchi neri sono paradossali, estremi e contro-intuitivi e dunque molti pensavano fossero solo un artificio matematico. Ma che cosa ha a che fare la matematica con i buchi neri?

La prima immagine di un Buco Nero ottenuta grazie alla collaborazione Event Horizon Telescope. Credits: Eht

La teoria della relatività generale di Einstein, come tutte le teorie fisiche, si serve ampiamente della matematica e in particolare di quella branca che viene chiamata geometria differenziale, la quale si occupa dello studio delle proprietà di alcune classi di spazi geometrici. La teoria di Einstein ha delle equazioni (chiamate, appunto, Equazioni di Einstein) che descrivono come lo spazio-tempo venga curvato dalla presenza di materia e come la materia si muova a causa della presenza di uno spazio-tempo curvo. Quest’ultimo si può studiare grazie agli strumenti della geometria differenziale stessa. Le equazioni di Einstein determinano la forma dello spazio-tempo: l’incognita in queste equazioni è la forma dello spazio-tempo.

Intorno al 1915, il fisico tedesco Karl Schwarzschild, mentre si trovava sul fronte orientale russo come tenente di artiglieria, risolse le Equazioni di Einstein in un caso particolare, quello di un corpo a simmetria sferica. Egli trovò la forma dello spazio-tempo quando viene incurvato dalla presenza di un corpo molto pesante in tali condizioni di simmetria. La sua soluzione ad oggi è nota come “buco nero di Schwarzschild“, ovvero un buco nero non rotante e senza carica elettrica, il più semplice immaginabile. Il buco nero che porta il suo nome ha una proprietà all’epoca ritenuta molto strana: al centro di questo oggetto molto massiccio lo spazio-tempo si incurva talmente tanto che la forza di gravità diventa infinita. Stiamo parlando di quella che viene chiamata “singolarità gravitazionale“.

Collasso di una stella che porta alla formazione di un buco nero.
Al centro (r = 0) troviamo la singolarità mentre ad r=2m troviamo l’orizzonte degli eventi.

I fisici dell’epoca declassarono questo problema come una mera aberrazione matematica e si convinsero che pertanto non potesse esistere nella realtà fisica. Le cose, però, cambiarono drasticamente negli anni sessanta/settanta quando Stephen Hawking e Roger Penrose hanno dimostrato con metodi matematici (e assunzioni fisiche molto ragionevoli) che la teoria della relatività stessa predice con fermezza l’esistenza di queste singolarità. In questo si trova l’origine del termine “robusto” nel premio. In altre parole, queste singolarità devono esistere all’interno della teoria stessa: questa è una previsione, dimostrata matematicamente, dell’esistenza dei buchi neri. Se si accetta la relatività generale come teoria in grado di descrivere ciò che vediamo nell’universo, allora tali singolarità devono per forza esistere in Natura. Questo discorso vale anche per singolarità cosmologiche come il Big Bang, che corrisponde all’inizio dell’evoluzione del nostro spazio-tempo.

Per questo motivo Roger Penrose ha ricevuto il premio Nobel in fisica nel 2020: per aver dimostrato, insieme a Hawking, l’ineluttabile presenza delle singolarità nella teoria della relatività generale di Einstein. Un modo per pensare a questo premio è che esso sia (moralmente) condiviso anche con Stephen Hawking, venuto a mancare il 14 Marzo del 2018: sicuramente senza il suo contributo oggi sapremmo molto meno su questi oggetti affascinanti. In un certo senso, è anche grazie a lui se il premio Nobel di quest’anno è stato assegnato ai buchi neri.

Un “mostro” al centro della nostra galassia: un buco nero supermassiccio

Metà del premio Nobel è stato attribuito a Penrose, mentre l’altra metà è stata assegnata in maniera equa a Reinhard Genzel e Andrea Ghez (quarta donna ad aver vinto il premio Nobel in fisica). Essi hanno vinto parte del premio per aver dimostrato che al centro della nostra galassia, la Via Lattea, esiste un buco nero enorme, dalla spaventosa massa pari a quattro milioni di volte di quella del sole.

In generale, il modo in cui tali oggetti mostruosi si osservino è un po’ simile a come è stata fatta la “prima foto” del buco nero: ci si rende conto della loro esistenza guardando alla grande quantità di materia che orbita attorno a essi. Infatti, l’immensa mole di materia presente in quello che viene chiamato “disco di accrescimento” permette di capire in maniera indiretta cosa sia l’origine di un tale agglomerato di polveri, gas e particelle di ogni tipo. I gas vicino a tali buchi neri sono sottoposti a pressioni e temperature incredibili e infatti è molto comune osservare getti potentissimi derivare da tali regioni sottoposte a condizioni fisiche estreme.

Simulazione di un disco di accrescimento attorno a un buco nero (qui il video). Credits: Nasa

Tuttavia, il “nostro” buco nero supermassiccio, chiamato Sagittarius A*, non è così turbolento. I ricercatori hanno passato 26 anni a monitorare il moto di alcune stelle in prossimità del buco nero e hanno dedotto che le loro velocità di rivoluzione potevano essere spiegate solo in presenza di un corpo celeste con una massa pari a quattro milioni di masse solari. Risulta doveroso ricordare che tali studi sono di importanza estrema anche per testare la teoria della relatività stessa, e non solo per testimoniare l’esistenza di tali corpi celesti. Infatti, le condizioni in cui essi versano, sono tali da poter fare in modo di testare continuamente le aspettative della teoria contro le osservazioni sperimentali: in altre parole, il centro della nostra galassia è un continuo ed estremo banco di prova per testare la teoria di Einstein, sperando di trovare prima o poi una falla in essa che ci possa portare a sviluppare nuovi modelli per capire il nostro universo. Per ora la teoria della relatività generale ha superato in maniera spettacolare ogni prova, dimostrandosi eccezionale e in grado di descrivere fenomeni inimmaginabili.

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